Dino Carlesi
Nato a Milano, ma risiede in Toscana da molti anni. Critico d’arte e poeta, amico di scrittori ed artisti. Fu incluso nel 1947 da Giuseppe Ungaretti nell’antologia Poeti prigionieri. Tra le sue recenti pubblicazioni poetiche ricordiamo Variazioni sul segno (Graphis arte, 1983), Una stagione possibile (Giardini, 1987), Destinazione terra (Forum, 1993), Soggiorno obbligato (Baroni, 1997), Racconto di un viaggio ( Passigli editore, 2000).
Anch'io ho vinto una edizione del Premio di poesia "II Fiore". Non ho mai dedicato particolare cura ai paesaggi naturali, intendo nella loro specificità e nomenclatura scientifica; non ho mai amato scrivere molto sullo spettacolo pur luminoso offerto dalla campagna. Anzi, la natura l'ho guardata spesso con timore, con sgomento, apparendomi vuota, asettica, disumana. Non sempre naturalmente. Eppure basta che scorga un uomo in una vigna o in un bosco o in cima ad una collina perché lo scenario mi si accenda, mi si umanizzi, acquisti un respiro imprevisto.
Forse è stata la vita rapinosa trascorsa da ragazzo orfano di città in città, l'urgenza di incontrare una figura, udire un fiato umano che donassero sicurezza ad un ragazzo che stava crescendo troppo solo. Poi in guerra non vi fu tempo per gustare i prati: le colline erano solo piccole cime da superare per nascondervisi dietro, magari per piazzarvi una mitragliatrice o una tenda.
Col passare degli anni, assai tardi, a Montepiano col pittore Saetti — un caro amico scomparso — incominciai a godere degli spazi, appresi un certo modo di osservarli, gustarli in silenzio. Poi, per un naturale passaggio dal macrocosmo al microcosmo, andai amando sempre di più le piccole cose che un certo paesaggio conteneva e mi mostrava. Amai prima i fiori degli artisti, quelli secchi di Tornea, i cardi di Grazzini, quelli adagiati sull'aria da De Pisis, quelli accesi di Omiccioli, quegli occhiuti di Viviani, quelli grassi e rossi di Guerricchio e di Guttuso. Allora mi risovvenni — come per miracolo — dei campi sterminati di papaveri su cui correvo da ragazzo alla periferia di Pisa, appena giunto da Milano, arrancando dietro un cugino più grande che si divertiva a lasciarmi sempre indietro.
Alla fine mi venne il gusto dei colori e specialmente dei colori dei fiori, che abbinavo a quelli delle tavolozze: rossi e viola, rosati e bianchi, azzurri e arancioni: colori che sembravano presentarsi quasi parlando, con un volo preciso, un carattere, un significato. Ora, nel giardinetto del Lido, ho perfino una pianta che al mattino fa alzare la testa ai proprii cento fiori rosa, morbidi come piumini, e che allo sparire del sole li fa ripiegare su se stessi come morti tra il verde delle foglie: è un'acacia rosa. Pare che al mattino questi fiori vogliano mostrare l'alterigia del proprio esistere e la sera fingano la distruzione e ostentino dolore per l'avvento delle tenebre: si tratta, quasi, di un miracolo, una resurrezione giornaliera.
Scrissi in passato alcune poesie sui fiori per il significato che io attribuivo loro, o meglio per il senso che il loro nome o il loro colore evocavano dentro di me. Ora li conosco meglio: il vecchio garofano, ormai relegato nei mazzi popolari e fatto recentemente simbolo di una nota ideologia; la rosa, la regina che rimane l'omaggio elegante, più comune e gradito; l'orchidea che arriva nei salotti chiusa nelle lucide bare di cellophane; il crisantemo, legato al tenero dolore dei defunti; la mia magnolia "soulangiana" che esplode in estate come un bianco fuoco d'artificio; i gerani dei terrazzini liguri citati nelle poesie di Sbarbaro; i grandi rododendri, le azalee nane, le dalie messicane; gli eserciti di girasoli che ruotano e si spengono simili a soldati in disfatta; gli estivi gladioli, alti e fieri; e quelle stei lizie blu o arancioni che sembrano di carne e quasi impauriscono, uccelli pronti per un volo misterioso; e, infine, quelle margheritine modestissime, bianche e gialle, che Martina traballante va a cogliere sul prato verde davanti casa, spesso cadendoci sopra a sedere!
Questi pensieri li meritava il Premio che ho vinto, anche se — per la verità — le poesie sovente usano il fiore a pretesto per un discorso di più vaste dimensioni: il fiore come decorazione dei pensieri che accimano alla mente, il fiore che si fa metafora di una situazione esistenziale nella quale le gemme che esplodono sono accensioni dell'animo e le siepi grovigli di lacerazioni e i colori ferite che si aprono al cielo.
Forse la Giuria pistoiese premiò anche le utopie che il pensiero dei fiori suggerisce ai poeti che tentano sempre di sfuggire all'insidia del grigiore della vita: infatti mi pare che il grigio non sia un colore diffuso tra i fiori!
Testimonianza tratta dal libro edito per il decennale del Premio